franco longo avvocato


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Convivenza more uxorio e mantenimento




Commento alla sentenza della corte di cassazione

Convivenza more uxorio di uno dei genitori separati e affidatario della figlia e contributo al mantenimento da parte dell'altro genitore.


Cassazione civile, sez. I, 24 febbraio 2006, n. 4203 - Pres. Losavio - Rel. Salvago - P. M. Maccarone.
Separazione dei coniugi - Violazione dei doveri coniugali ex art. 143 cc - Domanda di addebito - Efficacia causale della violazione dei doveri coniugali in relazione alla intollerabilità della convivenza - Necessità.

La pronuncia di addebito non può fondarsi sulla sola violazione dei doveri che l'art. 143 cc pone a carico dei coniugi, essendo, invece, necessario accertare se tale violazione abbia assunto efficacia causale nella determinazione della crisi coniugale.

Separazione dei coniugi - Contributo al mantenimento dei figli da parte del genitore non affidatario - Convivenza more uxorio del genitore affidatario - Riduzione del contributo al mantenimento - Esclusione.

Il carattere esclusivo e insostituibile dell'obbligo di contribuire al mantenimento dei figli minorenni o maggiorenni non autosufficienti economicamente esclude che tale contribuito possa essere ridotto pur in presenza di una convivenza more uxorio del genitore affidatario caratterizzata da condizioni di vita e di abitazione stabili e sicuri.



1) I presupposti per la pronuncia di addebito della separazione.
La domanda di risarcimento del danno.
Con la pronuncia in commento la Corte di Cassazione ha ribadito alcuni principi in precedenza enunciati alcuni dei quali, ad avviso della stessa Corte, non sono stati applicati dai giudici di secondo grado. I due aspetti particolarmente controversi della presente vicenda giudiziaria sono da un lato la pronuncia dell'addebito della separazione a carico del marito chiesta dalla moglie e dall'altro lato la determinazione dell'ammontare dell'assegno di mantenimento della figlia maggiorenne non autosufficiente economicamente (convivente con la madre) da versarsi da parte del padre in presenza di una convivenza more uxorio della madre con un altro uomo presso l'abitazione di proprietà del quale madre e figlia vivevano. Sicuramente più interessante, nella specie, si è manifestato il secondo profilo e su cui ci si soffermerà oltre.
In relazione alla domanda di addebito della separazione la Corte di Cassazione ha affermato la inammissibilità da un parte e la infondatezza dall'altra.
La moglie ha lamentato che erroneamente la Corte di Appello non aveva pronunciato l'addebito a carico del marito nonostante la medesima avesse provato il trasferimento all'estero del marito per motivi di lavoro, l'avverarsi di comportamenti contrari ai doveri che nascono con il matrimonio e, in particolare, la relazione extraconiugale, comportamenti aggressivi e violenti e l'azzeramento del conto corrente.
La Corte di Cassazione, in applicazione del principio di autosufficienza del ricorso, ha affermato che non e' ammissibile una doglianza generica circa la valutazione delle prove da parte dei giudici di merito che si assume errata per avere trascurato o male interpretato certe risultanze o certe circostanze, occorrendo l'indicazione precisa delle lacune argomentative o i passi della motivazione tra loro contraddittori o illogici e l'indicazione specifica dei capitoli di prova e dei documenti che si ritengono oggetto di erronea valutazione.
In ogni caso i giudici di legittimità hanno evidenziato che la Corte d'Appello ha ritenuto accertati certi comportamenti contrari ai doveri matrimoniali posti in essere dal marito, ma, in applicazione di un principio oramai ampiamente consolidato, la stessa corte veneta ha altresì ritenuto che essi non abbiano costituito la causa esclusiva del verificarsi della intollerabilità della convivenza che costituisce il presupposto per la separazione dei coniugi unitamente alla presenza di fatti tali da recare grave pregiudizio all'educazione della prole (art. 151 cc). Infatti, la violazione, al limite anche grave, dei doveri matrimoniali ex art. 143 cc non è sufficiente dal sola a ottenere una pronuncia di addebito, occorrendo che essa si ponga in rapporto di causalità con l'intollerabilità della convivenza . Può accadere, infatti, che il comportamento contrario ai doveri ex art. 143 avvenga quando i coniugi sono già in crisi e la convivenza non era già più tollerabile.
Spesso accade che sia il marito che la moglie chiedano in giudizio l'addebito della responsabilità della separazione e che comportamenti contrari ai doveri matrimoniali siano compiuti da parte di ambedue i coniugi. Emblematico un caso giunto anche al vaglio della corte di cassazione nel 2001 . In questa fattispecie ambedue i coniugi domandavano l'addebito della responsabilità: la moglie poiché il marito avrebbe intrapreso una relazione extraconiugale con convivenza in un altro comune, il marito in quanto la moglie aveva lasciato la casa coniugale per andare a vivere presso i propri genitori. I giudici di merito avevano pronunciato l'addebito a carico del marito. Lo stesso marito, nel giudizio di terzo grado, aveva lamentato che i giudici di merito avevano omesso una valutazione complessiva e comparata dei rispettivi comportamenti dei coniugi e aveva affermato che le violazioni dello stesso non erano state determinanti in relazione al venir meno dell'unità familiare. La Corte di Cassazione ha confermato la pronuncia di addebito nei confronti del marito, sottolineando che la Corte di Appello aveva fatto puntuale applicazione del principio in parola laddove aveva accertato che il trasferimento della moglie presso i genitori era avvenuta con il consenso del marito il quale aveva anche preso in locazione nella località ove vivevano i genitori della moglie un alloggio ove stare con quest'ultima e la figlia quando le raggiungeva e aveva accertato come, al contrario, la relazione extraconiugale del marito avesse assunto carattere determinante ed efficacia causale nel provocare la crisi coniugale e, quindi, la intollerabilità della convivenza.
Da alcuni anni a questa parte sono frequenti, unitamente o meno alla domanda di addebito della separazione, le domande di risarcimento del danno (non patrimoniale, esistenziale o biologico) ex art. 2043 cc a fronte della violazione dei doveri ex art. 143 cc. Vi è stato un caso in cui tale domanda è stata formulata altresì nei confronti dell'amante del coniuge . E molte sentenze dei giudici di merito hanno accolto tali domande provocando un vivacissimo dibattito in dottrina. Molti autori hanno condiviso l'applicabilità della responsabilità extracontrattuale nelle fattispecie in questione, mentre altri hanno manifestato una tesi opposta evidenziando, in particolare, l'autonomia del diritto di famiglia all'interno del quale sono previste le misure e la sanzioni specifiche in relazione al rapporto coniugale e agli obblighi che caratterizzano tale unione. E', quindi, intervenuta recentemente la Suprema Corte che ha sancito l'ammissibilità del binomio responsabilità civile - violazione degli obblighi derivanti dal matrimonio.
In effetti, in certi casi caratterizzati dalla gravità della condotta e dall'intensità della negazione della personalità dell'altro coniuge il quale prima ancora che coniuge è una persona avente evidentemente diritto al rispetto dei propri diritti fondamentali e di quelli qualificanti la propria personalità, assolutamente condivisibile è il riconoscimento del risarcimento del danno (non patrimoniale). In tali ipotesi, infatti, la mera misura dell'addebito, eventualmente, e le altre pronunce tipiche della separazione non appaiono sufficienti ad accordare vera giustizia.
Va, infine, ricordato che il nuovo art. 709 ter cpc prevede che in caso di inadempimento o violazioni in ordine all'esercizio della potestà genitoriale o delle modalità di affidamento che comportino, in particolare, un pregiudizio per il minore il giudice può disporre, anche congiuntamente, il risarcimento dei danni, a carico di uno dei genitori, nei confronti del minore e a carico di uno dei genitori nei confronti dell'altro. Quindi, il fatto illecito e il risarcimento del danno hanno ufficialmente per legge fatto ingresso nel nostro diritto di famiglia.

2) Convivenza more uxorio del genitore separato e affidatario della figlia: ciò può comportare
una riduzione del contributo al mantenimento in capo all'altro genitore?

L'altro aspetto caratterizzante la presente fattispecie riguardava l'entità dell'assegno di mantenimento a carico del marito a favore della moglie e della figlia maggiorenne non autosufficiente convivente con la madre. La particolarità è rappresentata dal fatto che figlia e moglie sono andate a vivere presso l'immobile di proprietà del convivente more uxorio della moglie. La sentenza di primo grado era stata appellata ed in secondo grado era stato domandato dalla moglie un aumento dell'assegno di mantenimento della figlia (stabilito in lire 600.000, oltre al contributo pari al 50% per le spese straordinarie). La Corte di Appello ha respinto tale domanda affermando che il marito aveva un buon reddito, ma non godeva di condizioni particolarmente agiate e che la figlia viveva con la madre e il suo compagno in condizioni di vita e di abitazione stabili.
La Corte di Cassazione ha, invece, parzialmente accolto tale domanda, affermando l'irrilevanza della convivenza more uxorio della moglie e del fatto che vivessero nell'appartamento del convivente in relazione agli obblighi di mantenimento genitoriali e, nella specie, del padre non affidatario. Peraltro, la Suprema Corte, in ordine alla determinazione dell'assegno di mantenimento, ha stabilito che occorre altresì tenere conto del fatto che il marito ha ottenuto l'assegnazione della casa coniugale, consentendo allo stesso un risparmio economico significativo.
Questo profilo della controversia offre lo spunto, quindi, per trattare un argomento importante: quello dell'affievolirsi o meno degli obblighi contributivi a favore del coniuge separato e dei figli con quest'ultimo conviventi nel caso in cui tale coniuge abbia una convivenza more uxorio. Esaminando la questione preliminarmente con riferimento al mantenimento del coniuge, va evidenziato che tempo fa alcuni giudici di merito avevano manifestato una certa riluttanza ad attribuire rilevanza alla circostanza dell'esistenza di una convivenza more uxorio in quanto la stessa, al contrario del matrimonio, poteva essere sciolta in qualsiasi momento e senza particolari formalità. Successivamente, e, in particolare, la giurisprudenza di legittimità, comprensibilmente, ha manifestato un atteggiamento opposto. E, in effetti, qualora nel giudizio il coniuge interessato dovesse dimostrare e provare adeguatamente la esistenza di una convivenza more uxorio e, quindi, una sorta di comunione spirituale e materiale al di fuori del matrimonio e, profilo altrettanto determinante, una certa capacità economica del convivente (anche in ipotesi dello stesso sesso), appare giusto che di ciò si debba tenere conto nel determinare gli obblighi economici connessi alla separazione a carico di un coniuge. Dovesse, successivamente, mutare la situazione e venir meno la convivenza o la predetta capacità economica, ben potrebbe essere introdotta la disciplina ex art. 710 cc al fine di ottenere diverse condizioni, salvo accordo tra i coniugi.
Tale soluzione è in linea altresì con la sempre maggiore considerazione, in vari ambiti di disciplina, che le convivenze (si pensi, da ultimo, alla espressa menzione dei soggetti conviventi ai fini dei soggetti che possono essere nominati amministratori di sostegno ex art. 408 cc), da tempo stanno conoscendo.
Connotati ben diversi assume il profilo in esame qualora l'indagine si sposti nell'ambito del mantenimento del figlio minorenne o maggiorenne non economicamente autosufficiente. Gli obblighi genitoriali, come affermato dalla Suprema Corte, hanno carattere esclusivo e insostituibile. Non possono, quindi, essere considerate ai fine della determinazione di tali obblighi contributivi da parte dei genitori, circostanze favorevoli come quella dell'utilizzo dell'appartamento del partner della madre da parte della figlia e, in generale, della convivenza more uxorio. La cassazione, però, nell'affermare tale principio aggiunge anche che occorre tenere conto della precarietà di tali eventuali rapporti favorevoli che sono privi di tutela giuridica. Tale affermazione appare un po' contraddittoria e non pertinente, nel senso che in un passo antecedente della motivazione, come evidenziato, la stessa ha affermato che la sussistenza della convivenza more uxorio può rilevare per determinare lo stato di bisogno del coniuge, quindi non era necessario dire che tale convivenza è precaria, priva di tutela, ecc, in relazione al diritto al mantenimento della figlia, ma semplicemente che in relazione agli obblighi de padre verso la figlia, all'opposto, la convivenza more uxorio e particolari aspetti vantaggiosi di essa sono appunto irrilevanti (stante la insostituibilità dei doveri genitoriali).
In questa materia appare utile rammentare una sentenza della Corte di Cassazione del 2000 la quale ha espresso il principio secondo il quale la formazione di una nuova famiglia non legittima di per sé una diminuzione del contributo per il mantenimento dei figli nati in precedenza, in quanto costituisce espressione di una scelta e non di una necessità e lascia inalterata la consistenza degli obblighi nei confronti della prole. In secondo grado la corte d'appello, invece, aveva ridotto l'ammontare del contributo in parola, attribuendo rilievo al fatto che tale genitore percepiva una retribuzione inferiore a quella della ex moglie e che lo stesso aveva, appunto, contratto un nuovo matrimonio con una donna priva di occupazione e dal quale era nato un figlio. La corte di cassazione, cassando la sentenza impugnata, ha altresì affermato che una corretta indagine, nella specie, deve tenere conto del parametro di riferimento (art. 148 cc) costituito non soltanto dalle "rispettive sostanze", ma anche dalla capacità di lavoro professionale o casalingo, con espressa valutazione non soltanto delle risorse economiche individuali, ma anche delle accertate potenzialità reddituali e deve considerare se la diminuzione del contributo comporti per il figlio una deterioramento del tenore di vita rispetto a quello precedente o addirittura si manifesti insufficiente a soddisfare le principali esigenze di vita di un fanciullo.
Il carattere insostituibile ed esclusivo del mantenimento dei figli in capo ai genitori esclude il venir meno dello stesso sia nell'ipotesi in cui ricorra l'ipotesi della convivenza more uxorio sia nell'ipotesi dell'ingresso del figlio naturale nella famiglia legittima di uno dei genitori (art. 252 cc). Ma può sussistere una ipotesi particolare in cui il figlio nato da una precedente unione e inseritosi nella nuova famiglia legittima del genitore benifici di un contributo economico, nel senso che questo beneficio è da intendersi in sostanza come un diritto. Si tratta dell'ipotesi un cui il genitore e il proprio coniuge abbiano costituito un fondo patrimoniale ex art. 167 e seguenti cc. Secondo una certa dottrina, la quale, evidentemente, propone una interpretazione estensiva, tra i soggetti beneficiari dei frutti del fondo andrebbero contemplati anche i figli naturali di uno dei coniugi, se conviventi o nati prima della costituzione del fondo patrimoniale . Si afferma anche, considerata la finalità normativa del fondo patrimoniale, ovvero il soddisfacimento dei bisogni della famiglia, che il mantenimento e il soddisfacimento delle esigenze del figlio naturale nato da altra unione, sia esso stesso un bisogno del genitore coniuge. Chi scrive ha invece affermato che se tale genitore dispone di propri autonomi e adeguati mezzi economici, a prescindere dalla convivenza e del momento della nascita, egli solo deve provvedere alle esigenze del figlio . Discorso diverso può essere effettuato se lo stesso manchi di tali mezzi. In questo caso, in effetti, pare possa sostenersi che quello di tale coniuge diventerebbe un vero e proprio bisogno che potrebbe essere soddisfatto con i proventi del fondo.
Ma a ben vedere questa ipotesi dovrebbe coprire la mancanza di mezzi del coniuge con cui vive il figlio, non la sfera di obblighi sussistenti in capo all'altro genitore. Ma se i frutti ricavati dai beni compresi nel fondo patrimoniale fossero di notevole entità? In questo caso ciò può incidere almeno sulla misura del contributo dell'altro genitore?



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